№ 211

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È scientificamente provato che amare la noia è un superpotere strategico.

9:53 di lettura — Il cervello è un un sadico: più fatichi, più gli piace. Il problema non è la sfida. È cosa pensi che dica di te. Guardare un esperto all'opera è come farsi un'iniezione di autostima.
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Ecco cosa succede quando smetti di saltare da un’idea all’altra

La strategia è una delle materie più noiose e affascinanti allo stesso tempo. Ed è proprio questo il motivo per cui funziona.

Fare strategia non significa solo avere idee brillanti. Significa rimanere concentrati per un lungo periodo, facendo abbastanza lavoro da raccogliere evidenze numeriche che la strategia sta funzionando. 

Molte strategie falliscono non perché siano sbagliate, ma perché non vengono eseguite a sufficienza. La noia prende il sopravvento, e i team cambiano strada prima di ottenere dati significativi. Saltano da una tattica all’altra, illudendosi di evolvere, quando in realtà si stanno solo distraendo — lo fanno per dimostrare di essere in movimento, di fare rumore, di giustificare il proprio costo.

Se non puoi replicarlo, non è strategia: è fortuna.

Molti team scambiano l’iperattività per velocità di esecuzione: saltano da un progetto all’altro convinti di star sperimentando, quando in realtà stanno solo evitando la fatica del rigore progettuale. Ma sperimentare non è fare tanto. È fare meglio. Significa testare poche cose, scelte bene, con metodo, costanza e misurabilità.

C’è una differenza profonda tra un’esperienza e un esperimento. 

Un’esperienza accade una volta: puoi raccontarla, ricordarla, persino celebrarla. Ma se non puoi replicarla, allora i risultati che ha generato sono frutto del caso, non di un sistema. 

Un esperimento, invece, è costruito per essere ripetuto, per generare risultati misurabili in condizioni simili. Se una campagna funziona ma non puoi rifarla con gli stessi effetti, non è strategia: è fortuna. La strategia, invece, richiede replicabilità. Richiede disciplina.

E soprattutto: richiede la volontà di restare nel lavoro abbastanza a lungo da capirlo davvero.

Rimanere concentrati su poche attività, con intenzionalità, è ciò che trasforma un team in una macchina di esecuzione strategica. La ripetizione riduce il carico cognitivo, aumenta le competenze e fa emergere schemi chiari nel lavoro, che possono essere osservati, ottimizzati e perfino ingegnerizzati.

Quattro ragioni scientifiche per amare la noia

Ho raccolto alcune ricerche che analizzano l’effetto della ripetizione nel lavoro quotidiano. Quando affrontate con il giusto atteggiamento, le attività ripetitive possono rafforzare motivazione, fiducia e senso di competenza. Ecco i risultati più evidenti:

1. Il cervello è un un sadico: più fatichi, più gli piace.

Immagina un team di scienziati che si domanda: “Possiamo davvero insegnare al cervello ad amare la fatica mentale?”

Nel 2022, Clay e colleghi hanno condotto una serie di esperimenti coinvolgendo oltre 1.500 persone. I partecipanti dovevano risolvere esercizi di memoria e attenzione, mentre i ricercatori monitoravano parametri fisiologici legati allo sforzo mentale, come la frequenza cardiaca. Alcuni venivano premiati solo se svolgevano bene il compito. Altri, invece, ricevevano una ricompensa semplicemente per averci provato con impegno, indipendentemente dal risultato. Col tempo, proprio questi ultimi hanno cominciato a scegliere spontaneamente esercizi più difficili. E quando le ricompense sono scomparse, hanno continuato a farlo. Il lavoro duro, premiato nel modo giusto, aveva cambiato la loro motivazione.

Il punto cruciale dell’esperimento stava in come veniva somministrata la ricompensa. Un gruppo riceveva un premio solo se completava correttamente il compito. All’altro gruppo bastava impegnarsi con costanza: il riconoscimento arrivava anche se il risultato finale non era perfetto. In altre parole, veniva premiato il processo, non solo l’esito. Questa semplice variazione ha innescato un cambiamento profondo nel comportamento dei partecipanti.

Il risultato: chi viene premiato per l’impegno inizia a scegliere compiti sempre più difficili, anche quando la ricompensa non c’è più. È come se avessero sviluppato un gusto autentico per la sfida.

Il cervello, una volta allenato a trovare senso nello sforzo, comincia a cercarlo. Proprio come un muscolo, risponde all’esercizio. E una volta innescato il meccanismo, diventa difficile fermarlo.

Dentro MAKE PROGRESS®

In MAKE PROGRESS®, questo principio non è una nota a margine: è il cuore stesso del metodo. Ogni fase è costruita per allenare la resistenza mentale, quel tipo di forza tranquilla che ti fa continuare anche quando non vedi ancora i frutti. È qui che il lavoro strategico cambia natura: smette di essere un esercizio di volontà e diventa un’abitudine di crescita.

La ripetizione non è mai fine a se stessa. Ogni ciclo è prevede indicatori numerici, momenti di riflessione, feedback che fanno da specchio alla realtà. È così che le sfide quotidiane tornano a essere sexy.

2. Il problema non è la sfida. È cosa pensi che dica di te.

Negli anni ’80, Carol Dweck studiò come bambini e studenti reagivano ai fallimenti durante compiti scolastici sempre più difficili. Alcuni si scoraggiavano in fretta, evitavano i problemi più complessi, e cercavano scorciatoie. Altri invece sembravano quasi incuriositi dalla difficoltà: sorridevano, ci riprovavano, restavano ingaggiati.

Cosa li rendeva così diversi? Il modo in cui interpretavano lo sforzo.

Dweck scoprì che chi credeva di poter migliorare con l’impegno, ciò che oggi chiamiamo growth mindset, mostrava maggiore resilienza, curiosità e capacità di apprendimento nel tempo. Al contrario, chi legava la propria autostima al successo immediato tendeva a evitare le sfide per paura di fallire.

Un piccolo cambiamento di mentalità, insomma, produceva grandi differenze di comportamento.

Le persone che credono di poter migliorare con l’impegno affrontano le difficoltà in modo diverso: si scoraggiano meno, restano più a lungo nel problema e imparano di più nel tempo.

Carol Dweck lo ha dimostrato osservando due tipi di studenti: quelli che vedono le sfide come opportunità per crescere e quelli che le evitano per paura di fallire. I primi sono più persistenti, più coinvolti e imparano di più nel tempo. Il segreto non è la bravura innata, ma la fiducia nel potersi migliorare.

Dentro MAKE PROGRESS®

Gli OKR, nel metodo MAKE PROGRESS®, non sono solo KPI con un nome nuovo. Sono veri e propri laboratori di ricerca e sviluppo in miniatura: spazi dove ogni obiettivo diventa un’occasione per testare, osservare e imparare. Ogni ciclo di OKR è un esperimento con ipotesi, dati e momenti di riflessione.

Aiutano i team a restare nel lavoro difficile anche quando l’entusiasmo iniziale si affievolisce. Permettono di attraversare l’incertezza con rigore e trasformare la ripetizione in miglioramento misurabile.

In MAKE PROGRESS ogni review è costruita per generare apprendimento, non giudizio sul lavoro delle persone. L’errore viene trattato come parte naturale del processo: un segnale utile, non un fallimento.

L’intero metodo è pensato per aiutare le persone a restare nella difficoltà abbastanza a lungo da costruire fiducia, e da lì trasformarla in competenza solida.

3. Guardare un esperto all’opera è come farsi un’iniezione di autostima.

Immagina di guardare uno chef mentre cucina un piatto complicato con una semplicità disarmante. Oppure un atleta che esegue un gesto tecnico perfetto, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Ti è mai capitato di sentirti ispirato solo osservando?

È proprio ciò che Scopelliti e il suo team di ricerca hanno voluto indagare: cosa succede nella nostra mente quando assistiamo a qualcuno che sa fare molto bene qualcosa di difficile?

Nel loro esperimento, hanno fatto osservare a un gruppo di persone delle dimostrazioni di abilità da parte di esperti in vari contesti. E i risultati sono stati tutt’altro che banali:

  • Guardare gli esperti all’opera aumentava la fiducia degli spettatori nelle proprie capacità.
  • Le persone si sentivano più competenti, anche se non avevano ancora provato loro stesse.
  • Attività quotidiane, viste attraverso le mani di un maestro, diventavano più affascinanti, più aspirazionali.

In pratica, non impariamo solo facendo. Impariamo anche osservando. E non solo come fare qualcosa: impariamo a credere di poterlo fare.

Guardare un esperto in azione è come ricevere un’anteprima credibile del nostro potenziale. Una dimostrazione ben fatta crea un ponte tra dove siamo oggi e dove potremmo arrivare domani.

Ecco perché l’osservazione diretta, la mentorship, o anche solo una demo fatta bene, sono strumenti potentissimi per crescere. Non insegnano solo tecniche. Accendono convinzioni.

Dentro MAKE PROGRESS®

Questo è esattamente il motivo per cui abbiamo creato la communty di practitioner di MAKE PROGRESS.

Non partiamo mai dalla teoria o dalle slide ma mostrando il metodo in azione: come si facilita davvero una sessione di costruzione dell’SFO, come si costruisce il North Star Framework, come si conduce un meeting di Check-in che energizza invece di annoiare.

Guardare un coach qualificato orchestrare una sessione strategica, vedere come gestisce le obiezioni, come fa emergere priorità condivise, come trasforma discussioni caotiche in decisioni chiare – ha un effetto immediato sulla percezione di fattibilità. Improvvisamente quello che sembrava “troppo complicato per la mia azienda” diventa “posso farlo anch’io”.

È la differenza tra leggere un libro sugli OKR e vedere qualcuno implementarli dal vivo. Tra sapere in teoria cos’è l’allineamento strategico e assistere al momento in cui un team passa dalla confusione alla chiarezza in 90 minuti.

Per questo ogni Progress Coach qualificato non solo conosce il metodo, ma sa anche mostrarlo. Perché la competenza strategica si trasmette prima attraverso l’osservazione, poi attraverso la pratica. E quando il tuo team vede che la strategia può essere gestita con la stessa precisione di un processo produttivo, inizia a credere che anche loro possano padroneggiarla.

4. Il pilota automatico è pericoloso. 

Immagina di imparare qualcosa talmente bene da poterlo fare senza nemmeno pensarci. Fantastico, no? Eppure, i ricercatori Langer e Imber hanno fatto una scoperta sorprendente che mette in discussione questa idea. Ecco cosa hanno scoperto.

Si sono chiesti: cosa succede quando pratichiamo così tanto un compito da renderlo del tutto automatico? È davvero sempre un vantaggio raggiungere questo livello di padronanza? (Langer e Imber, 1979)

L’esperimento di Langer e Imber era costruito per capire come reagiamo quando diventiamo “bravissimi” in un compito al punto da farlo in automatico.

Ecco come funzionava, in parole semplici:

  1. I partecipanti dovevano imparare un’attività semplice, come seguire una procedura ripetitiva.
  2. Alcuni la imparavano giusto il minimo, altri un po’ meglio, e altri ancora la ripetevano così tante volte da farla a occhi chiusi — questo è l’overlearning.
  3. Poi venivano messi in condizioni sociali diverse: a qualcuno veniva detto che era il “capo”, ad altri che erano “assistenti”, altri ancora non ricevevano nessuna etichetta.
  4. Infine, li mettevano alla prova con piccoli elementi di stress, tipo una domanda imprevista o un contesto che minava la loro sicurezza.

Il risultato?

  • Le persone che avevano praticato fino all’automatismo erano più vulnerabili a cali di performance
  • In particolare, se veniva messa in dubbio la loro competenza o ricevevano un’etichetta negativa, la loro performance crollava
  • Ma c’è un dettaglio cruciale: chi rimaneva consapevole dei passaggi del compito, anche se li conosceva a memoria, riusciva a mantenere una buona performance anche sotto pressione

Perché è importante?

Pensa a quando guidi: lo fai in automatico, ma facendo sempre la stessa strada rischi di non accorgerti di cambiamenti o imprevisti. Langer e Imber hanno dimostrato che restare mentalmente presenti in quello che si fa è essenziale per mantenere le prestazioni nel tempo.

La soluzione è mantenere “visibili” i componenti del compito, cioè non dare nulla per scontato, anche quando si è molto esperti. Per esempio seguire una checlist per pensare attivamente alle prossime azioni.

Questa ricerca cambia il modo in cui pensiamo alla pratica e alla competenza: non basta quanto ti alleni, conta quanto resti coinvolto mentre lo fai. La vera padronanza non è fare in automatico, ma restare consapevole anche quando il gesto diventa familiare.

Dentro MAKE PROGRESS®

Succede in tutte le aziende: si implementano gli OKR, si fanno i primi cicli con entusiasmo, e poi… scivolamento. I meeting diventano rituali nonsense, gli aggiornamenti si trasformano in rapportini burocratici, i Key Results perdono il collegamento con la strategia reale. Il team esegue i movimenti giusti, ma senza più consapevolezza del perché, o peggio ancora li strumentalizza.

È quello che la ricerca di Langer e Imber chiamava “mindlessness”: quando la pratica eccessiva senza attenzione cosciente rende vulnerabili al primo dubbio sulla propria competenza.

Ecco perché ogni azienda che fa strategia seriamente ha bisogno di Strategy Ops: professionisti dedicati a mantenere viva la conversazione strategica gestendo tutta la technicality del metodo. Non è il CEO che deve ricordarsi di aggiornare i dashboard, facilitare i check-in, o monitorare l’allineamento tra team. È lo Strategy Ops.

Mentre il management si concentra sulle decisioni strategiche, lo Strategy Ops si occupa dell’infrastruttura strategica. Mantiene i sistemi funzionanti, le conversazioni focalizzate, i processi fluidi. È la differenza tra avere una strategia sulla carta e averla viva nell’organizzazione.

Per questo MAKE PROGRESS® forma coach qualificati che diventano veri Strategy Ops: non sanno solo facilitare, ma anche orchestrare tutti gli elementi tecnici che tengono la strategia in movimento. L’autopilot uccide la strategia. Le Strategy Ops la mantengono cosciente, ciclo dopo ciclo.

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Fonti

  • Fonte: Clay et al., 2022 – “Effort-based valuation and neurophysiology”, Proceedings of the National Academy of Sciences Link
  • Fonte: Dweck, C. S. – “Motivational processes affecting learning” (1986) Link
  • Fonte: Scopelliti et al., 2013 – “Vicarious Control: Exposure to Mastery and the Perceived Controllability of Events” Link

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